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Se il docente è collettivo… che cosa valutare?

Pubblicato il: 25/03/2011 11:02:13 -


Solo se si dà veramente vita a un sistema in cui il singolo operatore sia messo in condizioni di esprimersi in una realtà sistemica e interattiva è possibile chiedergli ragione del suo operato. Altrimenti, il rischio è quello di scaricare sul singolo tutte le carenze di un sistema di cui egli non è affatto responsabile.
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In un sistema di istruzione e formazione in cui ormai da qualche anno a questa parte si parla – ma poco si fa – delle competenze che devono acquisire gli studenti, non si può fare a meno di riflettere su quelle che sono, anche e soprattutto, le competenze di un insegnante. Basta scorrere gli articoli 26 e 27 del Contratto nazionale scuola, dai quali si desume che l’insegnante, nella sua autonomia culturale e professionale, REALIZZA il processo di insegnamento/apprendimento volto a promuovere lo sviluppo umano, culturale, civile e professionale degli alunni, SVOLGE attività individuali e collegiali, PARTECIPA alle attività di aggiornamento e formazione in servizio; inoltre ha COMPETENZE disciplinari, psicopedagogiche, metodologico-didattiche, organizzativo-relazionali, di ricerca, documentazione e valutazione tra loro correlate e interagenti. E tutto ciò perché oggi l’insegnante non ha solo il compito di istruire sulla disciplina di competenza, ma anche quello di educare il cittadino e di formare la persona, per garantirle il successo formativo: è il comma 2 dell’articolo 1 del dpr sull’autonomia scolastica che cito costantemente nei miei interventi! E garantire il successo è una operazione che fa tremare le vene e i polsi! Un compito per nulla agevole: altro che l’alternativa di sempre di promuovere o bocciare!

È per conseguire tali finalità che nel Contratto è stato predisposto un pacchetto non indifferente di “azioni” che l’insegnante è tenuto a svolgere in situazioni costantemente ed essenzialmente interattive. Realizzare processi di insegnamento/apprendimento, e soprattutto in chiave pluridisciplinare e modulare – stante il fatto che le competenze terminali degli alunni, pur avendo a monte specifiche conoscenze e abilità, hanno pur sempre uno spessore pluridisciplinare – richiede da parte degli insegnanti una unitarietà di intenti e una coesione che si possono attivare con efficacia solo all’interno di un consiglio di classe… ma che sia veramente tale e non solo un luogo di periodici incontri in cui ci si limita solo a prendere atto più che a… produrre atti!

Dalla lettura dei due articoli del Contratto si evince che di una sola competenza abbiamo certezza, quella disciplinare: quell’unicuique suum, di cui ogni insegnante è sempre, è giustamente, molto geloso! Ma le altre – e sono numerose – sono sempre presenti? L’insegnante è tenuto a svolgere anche e soprattutto attività collegiali; in effetti, quando entrano in campo competenze psicopedagogiche, metodologico-didattiche, organizzativo-relazionali, è la stessa competenza disciplinare che deve mettersi in gioco. In effetti, una disciplina non è un’astrazione, o un libro di testo, o una Indicazione del Miur. Non è solo un insieme di contenuti da insegnare e fare apprendere. È molto di più, quando viene curvata alle esigenze di un processo di apprendimento: perché non può non intersecarsi e non intrecciarsi con altre discipline. Lo spazio disciplinare che un insegnante vive in genere come una sua esclusiva, l’alunno lo vive invece come un pezzo della sua giornata scolastica! E spesso un pezzo aggiunto a un altro non costituisce per lui un apprendimento significativo, per dirla con Ausubel. Di qui la necessità che la competenza disciplinare venga letta e curvata con le altre competenze di cui al citato Contratto. E di qui anche la mia vecchia idea di parlare di insegnante collettivo, capace cioè di percepirsi più come parte di un tutto che come un’unicità, forse apprezzabile ma… solitaria! Del resto è lo stesso nostro Testo Unico (dlgs 297/94) che all’articolo 1 così recita: “Nel rispetto delle norme costituzionali e degli ordinamenti della scuola stabiliti dal presente testo unico, ai docenti è garantita la libertà di insegnamento intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente. L’esercizio di tale libertà è diretto a promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni”.

Se tutte queste premesse sono vere, ne consegue che parlare di un insegnante in quanto tale, isolato dal contesto interattivo in cui è tenuto a operare, non ha molto senso! In un consiglio di classe ciò che conta è il gruppo con la sua sintalità, ovvero con la sua identità gruppale. Stando a certe proposte ministeriali su merito e bravura dei singoli, che cosa comporterebbe cercare all’interno del Consiglio chi è il più bravo? E poi che ne facciamo del meno bravo? Ammesso che ci sia. Si tratterebbe di una pratica aberrante, che rischierebbe di scatenare atteggiamenti e comportamenti competitivi là dove, invece, un’amministrazione consapevole dovrebbe solo sollecitare atteggiamenti e comportamenti cooperativi. Anni fa parlammo anche di codocenza come necessità di ricercare e assegnare un valore aggiunto alla semplice compresenza (C. Scaglioso, M. Tiriticco, M. Bracci, “Dalla copresenza alla codocenza, una innovazione funzionale alla scuola dell’autonomia”, Miur, 2002). Comunque, non è detto che in contesti diversi dalla scuola il più bravo non esista! Un attore, un cantante, un avvocato, un regista, un chirurgo, un giocatore riconducono a competenze che potremmo definire uniche e distinte! Anche se un attore, un cantante, ecc. possono anche fallire se il contesto in cui operano non è a quei livelli in cui la sua personale competenza possa esprimersi pienamente. Di qui consegue che la ricerca del migliore in un contesto così atipico – o che tale dovrebbe essere – quale quello di una scuola, o di una classe, o meglio ancora di un consiglio di classe, non solo non porterebbe a risultati né affidabili né attendibili, ma addirittura finirebbe con l’alterare in negativo quel contesto che invece dovrebbe essere sollecitato in positivo con altre strumentazioni.

Di qui i richiami che sono venuti dai recenti contributi di Aris Accornero, Dario Missaglia, Franco De Anna, Bruno Roscani sul tema della valutazione degli insegnanti e del sistema scolastico, con tutti i suoi sottosistemi, tra cui gli organi collegiali, le scelte didattiche, la progettazione sperimentale, e tutto ciò che un’istituzione scolastica può produrre. Si tratta di situazioni che costituiscono degli unicum da cui non si può prescindere. Se gli insegnanti in genere rifiutano di essere valutati in quanto singoli, ciò lo si deve al fatto che nessun insegnante si sente un unicum! Avverte, anche se non ne ha una perfetta consapevolezza, che i suoi successi od insuccessi non derivano solo dalla sua azione individuale, ma da una serie di interazioni di cui a volte non ha neanche l’esatto controllo. Nei nuovi ordinamenti ministeriali dell’istruzione superiore si insiste sui dipartimenti, sul comitato tecnico-scientifico, sulla pluri- e sulla interdisciplinarità, sulle attività laboratoriali, anche se poi i rigidi quadri orario, pur considerando le offerte date dagli spazi di autonomia e di flessibilità, li rendono di difficile attuazione. Insomma, la realtà della singola istituzione scolastica non è affatto semplice, sempre a cavallo tra una concreta e annosa rigidità e vaghi richiami alla elasticità.

Da tutto ciò consegue che, solo se si dà veramente vita a un sistema coerente al suo interno, in cui veramente il singolo operatore sia messo in condizioni di esprimersi in una realtà sistemica e interattiva, è possibile chiedere ragione al singolo del suo operato. Altrimenti, il rischio è quello di scaricare sul singolo tutte le carenze di un sistema di cui egli non è affatto responsabile.

Dario Missaglia nel suo “Quando la scuola va alla Fiat” afferma: “Il Miur è in grande difficoltà di fronte al tentativo, forse anche un po’ maldestro, di ‘premiare’, con voto a maggioranza del Collegio docenti, alcuni docenti disponibili a condividere i progetti di premialità pensati a Roma. Ma perché, di fronte a una situazione in cui le risorse sono risicate, non si è pensato di metterle a disposizione di quelle scuole disponibili a misurarsi con un progetto di miglioramento proposto dagli stessi docenti e valutabile rispetto agli esiti? Non è forse l’autonomia di ricerca e sulla didattica che andrebbe incentivata per migliorare gli esiti del processo formativo? Perché questa dimensione strategica dell’autonomia non deve essere meritevole di investimento, di attenzione, di verifica sul campo?”

Caro Dario, la tua voce, come quella di altri, pochi ma buoni, è sempre di tanti clamantium in deserto! E noi, comunque, continuiamo a clamare e a… reclamare!

Maurizio Tiriticco

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